mercoledì 21 marzo 2018

Yoga: ricerca sulle Pratiche

Dagl’insegnamenti di Swami Satyananda Saraswati

Abbiamo praticato diverse tecniche spirituali per secoli, ma di tanto in tanto gli intellettuali ci hanno scoraggiato dal farlo. Hanno inventato così tanti racconti inverosimili che, alla fine, hanno dissipato l’interesse generale.

Recentemente gli scienziati hanno svolto un lavoro veramente encomiabile e le loro indagini hanno verificato scientificamente che certe pratiche producono cambiamenti positivi nel corpo, nella mente, nel sistema nervoso e nel comportamento.

Il cambiamento del consenso
Circa trent’anni fa, se avessi detto a qualcuno che soffriva di pressione alta di sedersi e praticare meditazione, costui mi avrebbe dato del pazzo. Oggi, quegli strumenti di cui tanto si parla, come i sistemi di misurazione dei parametri psicofisiologici (biofeedback), hanno chiaramente indicato che, quando la pratica meditativa va molto in profondità, nel cervello compaiono schemi alfa. Quando nel cervello predominano gli schemi alfa, il cuore rilascia la pressione e si ha un grande cambiamento nel consumo di ossigeno all’interno del sistema. Al giorno d’oggi, se dico di meditare ad una persona che soffre di pressione alta, e il suo medico ne è al corrente, non farà nessuna obiezione.

Trent’anni fa, se vi avessero detto di praticare sirshasana, la posizione sulla testa, molte persone avrebbero detto: “Non farlo, diventerai pazzo!” C’erano molte polemiche in riguardo alla posizione sulla testa. Chi ha seguito le ricerche scientifiche, ora ha le idee chiare.

Circa tredici anni fa, un gruppo di scienziati ha condotto alcune indagini sugli effetti di sirshasana; in particolare sull’effetto fisiologico di sirshasana. Queste ricerche non furono condotte da un singolo individuo ma da un gruppo. Avevano circa un centinaio di praticanti di diverse fasce d’età e l’esperimento andò avanti per sei mesi. Quali furono i risultati? Gli stessi che si trovano in un libro di yoga,Hatha Yoga Pradipika”. Gli strumenti scientifici moderni non hanno glorificato lo yoga, ma hanno fatto un tentativo nel dissipare l’ignoranza dalle menti di molte persone riguardo allo yoga.

Scoprire la giusta asana
Se qualcuno soffre di ernia al disco o di sciatica, io gli insegno solo tre asana (bhujangasana, shalabhasana e makarasana), qualche pranayama ed un semplice bhastrika. Ci vorrà al massimo una settimana affinché si riprenda, anche se ne soffriva da anni. Come sono giunto a questa conclusione? Ve lo racconterò. Per puro caso andai a trovare un avvocato di Calcutta e costui era molto interessato allo yoga. Quel giorno, a casa sua, c’erano alcuni americani. Avevano con loro degli strumenti per fare l’elettroencefalogramma, l’elettrocardiogramma e delle macchine per misurare la resistenza della pelle: versioni portatili dei modelli da laboratorio.

Si stavano misurando l’un l’altro, ma non in modo prettamente scientifico. Testarono un uomo per la tensione muscolare. Si sedette nella stessa posizione in cui ci troviamo adesso e gli furono connesse le strumentazioni. I muscoli mostrarono un elevato livello di tensione. Poi gli chiesero di praticare bhujangasana. Appena si sdraiò in posizione prona, la macchina indicò una caduta di quella tensione. Quando assunse bhujangasana, tutti i muscoli della sua schiena erano a zero, completamente rilassati, fino al sistema sacrale. Non c’era nessuna parte in tensione. Lo stesso risultato si ebbe per shalabhasana e per makarasana. Così mi venne in mente che quella sequenza era la migliore per l’ernia al disco e per la sciatica.

Alla ricerca della kundalini
Gli strumenti scientifici hanno rivelato le potenzialità delle pratiche yogiche. Ora sono in molti a parlare di kundalini. Circa dieci anni fa, un dottore mi chiese: “Ha mai visto la kundalini?”. Io gli chiesi: “E lei?”. Mi rispose che aveva sezionato interamente un corpo e che non l’aveva vista. Gli chiesi: “Cosa intende dicendo questo?”. Lui mi rispose che la kundalini shakti non può esistere, perché nella sua dissezione lui non l’aveva vista. Gli feci solo un’altra domanda. “Mentre dissezionava il cervello, ha trovato i pensieri?”. Il dottore non mi rispose.

C’è un dottore in Giappone, un caro e grande amico, il Dr. Hiroshi Motoyama. È dottore in medicina e ha messo a punto un apparecchio che può registrare gli impulsi nei chakra. Ha una macchina di grandi dimensioni. Se voi siete alti sei piedi, egli allunga la macchina a sei piedi. Se siete bassi e giapponesi, accorcia la macchina. La adatta perfettamente in corrispondenza dei chakra (muladhara, swadhisthana, manipura, anahata), e li monitora.

Egli chiede alla persona di praticare bhastrika pranayama, ad esempio, o qualsiasi altra cosa. Mentre il soggetto esegue bhastrika e pratica jalandhara bandha, uddiyana bandha, mula bandha, contemporaneamente si può vedere cosa accade all’interno dei chakra. Certo, non vi è nessun risveglio di kundalini. Sono i chakra che iniziano ad attivarsi. Dopo che le sue indagini sono divenute note, molti medici si sono zittiti, perché ora kundalini shakti deve essere accettata come una forza.

Il sistema di monitoraggio
Negli ultimi tredici anni, non trentun anni, sono state condotte più di mille ricerche sulla meditazione da scienziati di tutto il mondo. Hanno fatto incredibili ricerche sul kundalini yoga, lo zen e altre forme di meditazione. Abbiamo molti apparecchi che possono essere usati per spiegare gli effetti delle varie pratiche yogiche sul corpo e sulla mente.

Alcuni anni fa in India uno swami fermò il proprio cuore e fu messo sottoterra per sette giorni. Dottori indiani e non indiani, provenienti dall’estero, vennero ad investigare. Lo dichiararono clinicamente morto, ma dopo dieci giorni egli uscì fuori. Ora, questo che cosa ci dimostra? Che anche dopo un arresto cardiaco, se si conosce lo yoga, si può sopravvivere. Il sistema di monitoraggio cardiaco è nel cervello, non nel cuore. L’infarto avviene non perché il cuore fallisce, ma perché il sistema di monitoraggio fallisce nella regolazione e nel coordinamento. Se si conosce come manipolare questo sistema di monitoraggio, l’arresto cardiaco può essere evitato.