martedì 30 settembre 2014

Impressioni sul viaggio in India

Jn Amarananda (Alice Banchetti)

26 dicembre 2013: l’arrivo a Delhi

Appena scesa dall’aereo ho perso una valigia… per fortuna ne avevo un'altra!

Arrivati a Delhi è stato difficile destreggiarsi tra tutto quello “sbrilluccichio” di colori: orecchini di qua, borse di là, stoffe colorate… i sensi si perdevano in quel frastuono di colori, odori speziati, persone, mucche, cani e fiori!

Sopravvissuti a Delhi, ci siamo diretti a Rishikesh. Dove alloggiavamo, c’era un'aria di montagna freschissima e pulita.

Il giorno dopo gli altri hanno fatto il bagno nel Gange mentre io, che avevo una nausea incredibile, mi sono solo sciacquata la faccia con l’acqua del Gange, gelida e al tempo stesso purificante.

Poi abbiamo fatto visita all’Ashram di Sri Swami Shivananda. All’interno vi era anche una libreria molto fornita dove ho comprato il libro “Fast and Hindu Festival” (“Digiuni e feste Hindu”) che spiega il significato simbolico delle varie festività indiane.

Dopo Rishikesh siamo tornati a Delhi con il nostro furgoncino guidato da Mahesh e siccome era sabato, abbiamo recitato, come di routine, il Maha Mrityun Jaya mantra.

Muoversi con un mezzo di trasporto in India è un esperienza indimenticabile: il luna park gli fa un baffo!

Poi abbiamo preso il treno per Jasidih: un lungo viaggio, in cui sembrava quasi di essere tornati indietro nel tempo, a quando i treni andavano così lenti.

Da Jasidih ci siamo diretti a Deoghar, dove vi è uno dei 12 famosi templi dedicati a Shiva, chiamati Jyotirlinga, che letteralmente significa “Linga luminoso”.

Il mattino seguente abbiamo fatto visita al “Baba Badyanath Temple” dove sembrava che tutta la popolazione indiana vi si fosse riunita in attesa di una benedizione di Shiva, e noi anche!

Siamo riusciti ad avere il darshan (vedere) del Jyotirlinga, nonostante l’impeto del fiume umano di persone presente all'interno del tempietto, ci spingesse fino al soffocamento. Mentre la gente spingeva con forza, pensavo tra me e me: “Beh! Anche da noi è così... allo stadio, in discoteca… ma in realtà non avevo mai sentito delle persone spingere così forte per entrare dentro un posto! Nonostante tutto questo, non avevo paura, ero sicura che non sarebbe accaduto niente.

Una volta usciti dal tempio la sensazione che provavo era come se qualcuno mi avesse dato un “lasciapassare”, e che da quel momento non avrei più avuto nessun tipo di problema in India.

Rikhiapeeth Ashram
Da Deoghar ci siamo diretti a Rikhiapeeth, l’Ashram di Paramahamsa Satyananda. Nei pressi dell’Ashram il paesaggio era stupendo, c'erano tanti alberi, niente smog, le case degli abitanti dei villaggi, la terra color rosso-arancio che contrastava con il cielo azzurro…

Una volta entrati in Ashram ci hanno subito “catalogati” nei registri. Le stanze nei dormitori erano semplici e pulite. Poi quando il nostro gruppo si è sistemato nelle varie “accomodation”, abbiamo partecipato al programma in corso: sotto ad un tendone i Pandit stavano recitando il Rudri Path.

Il giorno seguente ci siamo messi “in azione” aiutando a preparare e distribuire i prasad; fuori dai cancelli dell’Ashram c’erano tutti gli abitanti dei villaggi in attesa di ricevere i doni.
E’ stata una cosa veramente gioiosa!

La sera del 31 dicembre abbiamo mangiato la pizza. Era molto buona, ma non è stata come la solita pizza di cui si può fare esperienza nelle pizzerie in Italia: nel momento in cui l’ho mangiata, ho avuto una sensazione stranissima: era come se avessi ingerito qualcosa di magico e di colpo fosse aumentato il livello di energia. Dopo cena siamo tornati sotto il tendone, Sw. Satsangi ha detto che il Rudri Path è stata un offerta molto speciale per Swami Satyananda e che questa pratica serve a rimuovere i Karma negativi. Ridendo e scherzando, Satsangi cercò di convincere Niranjan a fermarsi anche per il giorno dopo per darci così il messaggio per il nuovo anno.

La mattina del 1° Gennaio abbiamo cantato kirtan e mantra: non c’è stato modo migliore per iniziare il nuovo anno.
Dopodiché, come nomadi, siamo ripartiti: la nuova meta era Munger, la Bihar School of Yoga.

Ganga Darshan Munger
Appena arrivati in Ashram a Ganga Darshan Bihar School of Yoga, c’era un’aria di festa: stavano cantando l’Hanuman Chalisa per 108 volte. Il mantra era cantato incredibilmente veloce dalle kanya (ragazze), accompagnato dalla musica, ed ogni volta che finiva il mantra, una kanya correva con un cartello che indicava il numero dei mantra cantati. L’aria di festa, allegra ed energica ti metteva di buon umore!

In Ashram mi sentivo al sicuro ed in confronto alla confusione dell’esterno mi sembrava di stare in paradiso. In Ashram ho vissuto una sensazione di serenità, semplicità, purezza, armonia e bellezza, che si poteva percepire e vedere nell’ambiente curato dalle persone che vivevano là.

Un giorno durante il seva conobbi un'indiana di nome Satyapriha. Gli dissi che l’Ashram era molto bello e lei mi rispose “Grazie a Swamiji”. Con quella risposta, capii che tutto l’ambiente che mi circondava non era gradevole solo perché ogni cosa era al posto giusto, ma soprattutto perché dietro ad ogni cosa vi era la presenza energetica di Swamiji: Swami Niranjan!

La routine giornaliera in Ashram

In Ashram a Munger la routine giornaliera era la seguente:
- dalle 5.00 alle 6.00: toilette e pratiche personali
- ore 6.00: colazione
- ore 7.00: pulizia dei bagni
- ore 8.00: seva (servizio altruistico)
- ore 11.30: pranzo
- ore 12.30: riposo e studio
- ore 13.30: thè
- dalle ore 14.30 alle 17.30: seva
- dalle 18.00 alle 20.00: studio e pratica personale
- ore 20.30: ritiro nelle proprie stanze

Quando arrivava l’ora del seva (servizio altruistico), bisognava andare al GDO (Reception) dove arrivava un incaricato/a (the incharger), nel nostro caso era una gioviale cinesina sannyas, che con il suo sorriso smagliante, tutte le mattine ci diceva: “ARE YOU COMING FOR SEVA ?”

Una di quelle mattine eravamo seduti davanti al GDO in attesa che arrivasse Swami Niranjan (così ci avevano detto) e così come di prassi, la cinesina arrivò e chiese a uno di noi: “Are you coming for seva?”(siete venuti per il seva?) E noi “No!“ E la cinesina ripetè ridendo: “You have to do seva!” (dovete fare seva!)

Quel giorno, purtroppo per noi, Swami Niranjan non si fece vivo e così la cinesina sannyas ci affidò i seva: qualcuno “In the kitchen” (in cucina); qualcuno in “Accomodation” (pulire e sistemare le camere) e qualcun altro in “The pubblication’ (pubblicazioni).

Molto spesso a me toccava “Accomodation” (eh eh eh!), e così, insieme ad altre ragazze di varie nazionalità sistemavamo le camere dello Shakti Vyhar, dove da piccola avevo dormito con mia madre. Tra di noi si parlava in inglese e aiutandosi con i gesti, si intuiva quello che c’era da fare.

Altre volte ero in cucina per “cutting vegetables” (tagliare le verdure) insieme a molte altre persone del nostro gruppo, indiani e persone di altre nazionalità.

In cucina il tempo passava velocemente, in realtà il lavoro era rilassante e quando poi si andava a mangiare ciò che avevamo precedentemente preparato, non si aveva la stessa sensazione di quando vai a mangiare al ristorante.

Il cibo in Ashram era buono e leggero, ma oltre al gusto gradevole, dopo averlo mangiato infondeva una buona sensazione.

Un giorno ci hanno fatto tagliare i fagiolini in fettine diagonali finissime e io proprio non capivo il motivo di quel taglio cosi complicato. L’indiano capo-cucina alla fine mi ha messo a tagliare i peperoni, per disperazione!

L’incontro con Swami Niranjan

Un giorno finalmente ci avvisano che avremmo incontrato Swami Niranjan e in quell’occasione alcuni del nostro gruppo avrebbero preso l’iniziazione. Oltre a noi c’erano altre persone di diverse nazionalità, argentini, spagnoli, colombiani, ecc.

Era tanto tempo che non parlavo con Swami Niranjan. Mio padre gli ha detto che non venivo in India da vent’anni, e Swamiji mi ha semplicemente chiesto in inglese: “Che cosa hai fatto in tutto questo tempo!?”

Dopo l’incontro avevo la sensazione di “vederci meglio”. Come una macchina fotografica messa a fuoco fa delle foto più nitide e definite, così la mia visione era più pulita ed intensa.

In viaggio per Varanasi
La sera del 5 Gennaio abbiamo preso il treno da Jamalpur, la stazione di Munger, direzione “Città santa di Varanasi”.
A Varanasi, sulle rive del Gange, abbiamo preso la barca costeggiando il fiume sacro. Ognuno di noi ha lasciato sulle acque del Gange una ciotola con dei fiori e una fiammella accesa, esprimendo al contempo il proprio desiderio e la propria preghiera a “Madre Ganga”.

Poi ci siamo avvicinati alla riva dove nelle venivano bruciati i morti. C’erano diversi fuochi accesi, circondati da persone che con dei bastoni sistemavano i corpi; si sentiva uno strano odore e in quel momento sembrava stessi guardando un film. Sapere che il fuoco riesce a bruciare un corpo, ti fa capire quanto sia potente!

Quando poi ci siamo allontanati, poco più in là c’era uno spettacolo che esprimeva l’esatto opposto di ciò che avevamo appena visto prima. Tutte le sere, al tramonto, alcuni bramini eseguono una cerimonia chiamata “Aarti”, celebrazione in onore del Gange.

I bramini vestiti di color oro e rosso, fanno con le braccia una sorta di coreografia con movimenti circolari, in tutte le direzioni, offrendo incenso, acqua, fiori e luce con candelieri pieni di candeline accese.

Il fuoco è presente, ma in questo caso non è distruttore, è vitale e devozionale. Tutto è accompagnato da una musica bellissima. Intorno, indiani e turisti, guardano meravigliati quel divino spettacolo.

La conclusione del viaggio.

La cosa che più mi ha colpito in India è la povertà. Guardandoti attorno quasi ti senti stupido a fare “il turista”: bambini piccoli ti chiedono l’elemosina di sera in mezzo al traffico; i ragazzi ti inseguono per tutta la via tentando di venderti delle collanine; le case-baracche ai lati delle strade con i tetti fatti di stracci; persone che litigano con una scimmia per un piatto di riso!

La povertà contrasta con la bellezza dei templi minuziosamente decorati, dipinti e scolpiti, e con l’artigianato indiano che affascina i molti turisti. Nei templi, le divinità vengono vestite e adornate con ghirlande di fiori e collane: sono l’emblema della bellezza.

Gli indiani hanno il massimo rispetto per tutto ciò che è sacro: dentro i templi non si può entrare con le scarpe e all’entrata le guardie controllano attentamente che i visitatori non abbiamo le “odiate” macchine fotografiche.

Ma a parte quest’aspetto che fa riflettere, così come tutta l’India e soprattutto come il periodo passato in Ashram, alla Bihar School of Yoga, sono stata molto contenta di questo viaggio poichè mi è piaciuto veramente molto e al ritorno mi sono sentita più stabile e decisa.

Insomma, alla domanda di come sia andato questo viaggio, la mia risposta è: “Bahut accīa!” (molto bene!)